Gli Impatti nel Sistema Solare

 

 

Ormai la quasi totalità degli scienziati è concorde nel considerare fondamentalmente corrette le teorie cosmogoniche del Sistema Solare cosiddette nebulari, cioè quelle che fanno riferimento ad un’origine comune del Sole e dei pianeti, origine riconducibile al frazionamento ed alla successiva evoluzione di un’unica nebulosa primordiale.
Tali teorie sono concordi nell'ipotizzare un accrescimento graduale, con ritmi evolutivi differenziati, sia del Sole che degli altri corpi celesti del Sistema Solare, ma non sempre nell'analisi dei processi coinvolti in questa fase si ha uniformità di vedute, soprattutto quando si tratta di dover identificare i meccanismi fisici responsabili dell'innesco e del rapido sviluppo del fenomeno dell'accrescimento.
Fino a qualche decennio fa, poi, la visione dell'origine e dell'evoluzione del Sistema era molto "tranquilla", nel senso che il meccanismo di accrescimento era inteso come un aggregarsi graduale di polveri che andavano a formare corpi di dimensioni via via crescenti, ed in questo quadro non era sufficientemente approfondita l'eventualità del manifestarsi di violente interazioni tra gli oggetti che si andavano formando o che già si erano formati. E' vero che, fin dall'inizio del secolo scorso, c'era la consapevolezza della natura extraterrestre del fenomeno meteoritico, ma esso era considerato quasi un meccanismo secondario, una caratteristica degenerativa occasionale dell'intero processo evolutivo, idea di fondo alla quale è possibile a grandi linee ricondurre l'ipotesi di Olbers (1805) del "pianeta distrutto" quale origine della Fascia Asteroidale (ed è proprio a tale ipotetico pianeta scomparso che si attribuiva la paternità della caduta delle "pietre dal cielo").

In questa visione, i crateri che costellano la superficie lunare costituivano un vero e proprio mondo a parte, una sorta di eccezione che male si adattava all'idea del lento e graduale aggregarsi dei planetesimali, tanto più che l'altra superficie planetaria conosciuta, quella della nostra Terra, di tali strutture ne presentava ben poche…
Il sorgere dei primi dubbi sul fatto che il meccanismo degli impatti fosse da considerare solamente un evento eccezionale si può già intravedere, a mio parere, negli studi di K. Hirayama sulle famiglie dinamiche degli asteroidi (il suo primo lavoro sull'argomento fu pubblicato nel 1918), geniale intuizione che spalancherà la strada alle più complesse ed approfondite elaborazioni successive.
L'idea corrente nell'ambiente scientifico era, però, quella che tale situazione anomala caratterizzasse unicamente la Fascia degli Asteroidi, vista come una zona particolarmente affollata e caotica, alla quale ben si adattava il ruolo di biliardo cosmico; per il resto del Sistema Solare, invece, il modello era quello del perfetto meccanismo a orologeria che si muoveva seguendo il rigore matematico racchiuso nelle leggi di Keplero.
Ad ogni modo, seppure lentamente, avanzava la consapevolezza che il meccanismo di accrezione planetaria non doveva consistere unicamente nell'aggregarsi di polveri, ma doveva prevedere la formazione di oggetti sempre più grandi che risultavano, quasi in un meccanismo a gradini, dall'unione dei corpi della precedente generazione.
E questa crescita gerarchica doveva inevitabilmente prevedere che oggetti di dimensioni ormai consistenti potessero scontrarsi, con la concreta eventualità che un tale contatto risultasse distruttivo.
Oggi questa idea costituisce un punto fermo e irrinunciabile della planetologia.
Alla luce, poi, delle ultime conoscenze acquisite grazie alle missioni delle sonde spaziali (Voyager, Pioneer, Galileo e NEAR per citare solo le missioni più eclatanti…) ed alle simulazioni numeriche al computer (applicate in modo sistematico anche per cercare di capire i meccanismi dinamico-evolutivi degli asteroidi, sulla scia dell'idea di Hirayama), oggi c'è la certezza che il meccanismo degli urti tra i planetesimali in via di formazione abbia giocato un ruolo cardine nei processi evolutivi dell'intero Sistema Solare
Questo non significa solamente riconoscere che l'accrescimento dei planetesimali sia avvenuto a seguito di "urti costruttivi", in grado cioè di non disperdere nello spazio dopo l'impatto i materiali costituenti i corpi originari, ma accettare (e talvolta richiedere espressamente per poter avanzare ipotesi plausibili in merito ad alcune situazioni) la presenza di urti molto più energetici, veri e propri colossali "colpi di biliardo" cosmici in grado di mettere a repentaglio la stessa stabilità fisica degli oggetti già formati.

Fino alla prima metà degli anni '60 gli scienziati, effettivamente, non avevano a disposizione molti dati per poter considerare percorribile l'ipotesi di una azione così massiccia e generalizzata del fenomeno impattivo nell'evoluzione dei corpi del Sistema Solare.
Gli stessi crateri lunari, considerato il loro elevatissimo numero e le ciclopiche dimensioni di alcuni di essi, non venivano interpretati come vestigia di eventi impattivi che avevano interessato il nostro satellite, ma si avanzavano spiegazioni meno traumatiche e più vicine alle manifestazioni geologiche tipiche della Terra, ricorrendo ai fenomeni vulcanici e alla ricaduta sulla superficie lunare dei massi che tali eruzioni avevano violentemente scagliato in aria.
Storicamente fu proprio questa ipotesi endogena la prima ad essere proposta per rendere ragione della superficie estremamente rugosa e irregolare del nostro satellite; nella sua forma iniziale, tale idea si deve a R. Hooke che, nel 1665, propose che i crateri lunari fossero dovuti all'esplosione di vapori o gas provenienti dal sottosuolo e raccoltisi presso la superficie in gigantesche bolle.
Dopo di lui vi furono anche altre "variazioni sul tema", quale ad esempio l'ipotesi mareale, che attribuì le formazioni lunari al consolidamento sulla superficie di materiale proveniente dall'interno, sollecitato dinamicamente dall'attrazione gravitazionale terrestre; oppure l'ipotesi vulcanica in senso stretto, secondo la quale l'origine dei crateri lunari poteva essere identificata nell'attività di vulcani, anche se morfologicamente diversi da quelli terrestri.
Accanto ai sostenitori di questa visione endogena (e talvolta in acceso contrasto con essi) vi era però anche chi sosteneva che si potesse ricondurre la morfologia superficiale del nostro satellite all'azione dirompente di proiettili cosmici provenienti dallo spazio interplanetario; la paternità di tale ipotesi meteoritica è attribuibile a F. von Gruithuisen (1829) e ad R.A. Proctor (1873).
Per molti anni le due differenti visioni si sono contese, anche aspramente, il campo, finché non è stata da tutti compresa e accettata l'innegabile presenza e la fondamentale importanza del ruolo degli impatti in tutta la storia del Sistema Solare.
E gran parte del merito va senza dubbio attribuita alle missioni spaziali che, come si diceva poc'anzi, ci hanno servito su un piatto d'argento l'evidenza che tutte le superfici dei pianeti e dei satelliti (e non solo di quelli appartenenti al cosiddetto Sistema Solare interno) sono caratterizzate dalla presenza di una fitta craterizzazione.
Limitandoci unicamente ai corpi celesti a noi più vicini, ricordiamo che la scoperta dei crateri su Marte è dovuta alle osservazioni del Mariner 4 nel 1965, mentre nel 1971 Mariner 9 mostrò la craterizzazione dei due satelliti marziani Phobos e Deimos.
La craterizzazione di Venere, da sempre nascosta dallo spesso strato di nuvole che riveste il pianeta, è stata rivelata per la prima volta nel 1972 grazie ad osservazioni radar, mentre quella di Mercurio ci è nota in seguito alle fotografie inviate nel 1974 dalla sonda Mariner 10.
E non si può, a proposito del contributo delle sonde spaziali, non accomunare nel ricordo i meravigliosi tour delle due sonde Voyager (lanciate nel 1977), le fantastiche immagini inviateci dalla Galileo (la cui missione è iniziata il 18 ottobre 1989) durante i suoi incontri ravvicinati con il sistema satellitare di Giove e con gli asteroidi Gaspra e Ida ed il panorama non meno spettacolare dell’asteroide Mathilde, mostratoci dalla sonda NEAR che, partita il 17 febbraio 1996 con destinazione Eros, è dal 14 febbraio 2000 in orbita intorno all'asteroide.
Tutte queste immagini provano senza ombra di dubbio che il fenomeno della craterizzazione è presente in tutti i corpi del Sistema Solare e che l'origine impattiva debba esserne considerata la causa primaria. Se per spiegare la craterizzazione dei corpi maggiori, infatti, accanto a quella impattiva, si potrebbe anche suggerire l'ipotesi endogena, non così sicuramente si potrebbe fare per i corpi di dimensioni più modeste, assolutamente inadeguati sia ad innescare che a mantenere attivo tale processo, a meno che non intervengano pesanti fattori esterni (vedi quanto accade su Io, satellite di Giove, caratterizzato da una parossistica attività vulcanica).
La presenza di crateri anche sui corpi minori, inoltre, è la chiara indicazione che il meccanismo impattivo è di tipo gerarchico, perfettamente in linea, dunque con la visione a gradini del processo evolutivo del Sistema Solare.

La stringente considerazione che la craterizzazione fosse un fenomeno globale non poteva non comportare una riconsiderazione della collocazione del nostro pianeta in questo tiro a segno cosmico: una vera e propria rivoluzione culturale nella quale un posto preminente penso si debba riconoscere all'opera di ricercatore di Eugene Shoemaker. A lui si deve lo studio approfondito (fu l'argomento della sua tesi di laurea) del Meteor Crater in Arizona e la ricostruzione, ritenuta valida tuttora, della dinamica dell'evento e della composizione del corpo impattante.
Un elemento molto importante presente nello studio del Cratere di Barringer effettuato dal Dr. Shoemaker è l'identificazione della coesite (una forma di silicio che si origina in presenza di elevate pressioni e temperature) quale prova incontrovertibile dell'origine da impatto, un marchio che, unito a tutte le altre manifestazioni di metamorfismo da shock, porterà, dalla fine degli anni '60 in poi, ad un incredibile aumento del numero di identificazioni di crateri da impatto terrestri.
Poche righe fa ho usato il termine di rivoluzione culturale, e per qualcuno potrà suonare eccessivo, ma io sono convinto che non venga sufficientemente sottolineato il grande cambiamento di visione che comporta il riconoscere anche per la Terra il ruolo di bersaglio cosmico.
L'immagine del nostro Pianeta quale luogo privilegiato del Sistema Solare ha subito un ulteriore scossone, certamente non così micidiale come quello inflitto da Copernico (in quel caso, addirittura, si proveniva da una visione caratterizzata da una posizione di riguardo della Terra rispetto all'Universo intero…), ma comunque sufficiente a non farci considerare più così sicuro il continuo viaggio intorno alla nostra stella e a costringerci a chiederci se davvero è corretto ciò che riteniamo di conoscere del nostro passato (la diatriba sulle estinzioni periodiche e sulle loro cause è ben lungi dall'essere risolta, anzi si arricchisce continuamente di nuovi elementi).
Ma lasciamo in disparte l'analisi (solo apparentemente filosofica…) della nuova immagine che la consapevolezza del ruolo fondamentale degli impatti ci può suggerire per la Terra e rivolgiamoci, con il senno di poi, ad evidenziare quegli elementi che possono suggerire la presenza attiva e fondamentale del meccanismo impattivo nel Sistema Solare.

Il primo elemento che si può mettere sul tappeto è certamente l'obliquità dei pianeti, cioè l'angolo tra il piano equatoriale e quello dell'eclittica (vedi tabella):

Pianeta Obliquità Pianeta Obliquità
Mercurio Giove 3° 1'
Venere ~ 177° Saturno 26° 7'
Terra 24° 25' Urano 97°
Marte 25° 2' Nettuno 29° 8'

 Come si può notare dai dati riportati (nell'elenco manca Plutone sia per la peculiarità della sua orbita e sia perché le recenti scoperte degli oggetti trans-nettuniani potrebbero suggerire per esso una differente e più consona classificazione), la condizione in cui si trovano tutti i pianeti è caratterizzata dal fatto che l'equatore non è allineata con il piano orbitale, ma forma un angolo il cui valore è, in alcuni casi, tutt'altro che trascurabile; una situazione che, ipotizzando un accrescimento graduale da polveri, non si riuscirebbe a spiegare in modo credibile, dovendo necessariamente ricorrere all'ipotesi di disomogeneità dinamiche locali, la cui origine, però, sarebbe un vero mistero.
Come infatti motivare il manifestarsi dell'anomala situazione di Venere, il cui senso di rotazione è opposto a quello che caratterizza ogni altro pianeta? Per quale ragione e attraverso quale meccanismo fisico la porzione di nube primordiale collocata a quella distanza dal Sole avrebbe potuto innescare un moto rotatorio in senso contrario?
Guardando la tabella si può notare che l'unico pianeta che fa eccezione a tale situazione è Mercurio, ma le sue modeste dimensioni e soprattutto l'estrema vicinanza con il Sole (solamente 0.38 U.A.) possono dinamicamente rendere ragione della sua situazione orbitale, come dimostra anche il profondo legame risonante tra periodo orbitale e rotazionale (stanno in un rapporto 3:2) e tra periodo rotazionale del Sole e analogo periodo di Mercurio (il rapporto è 7:3).
Ed è proprio perché la sua danza cosmica è pesantemente condizionata dalla presenza invadente del Sole che Mercurio deve essere considerato l'eccezione che conferma la regola.
Una regola alla quale non sfuggono neppure i pianeti più massicci, come mostra la situazione di Urano, letteralmente coricato sul suo piano orbitale.
Quale spiegazione avanzare, allora, per rendere ragione della presenza di questa obliquità orbitale che caratterizza tutti i pianeti?
La spiegazione più semplice (perché tale appare con il senno di poi…) richiede espressamente il verificarsi di colossali e violentissimi impatti, non limitati solamente alla zona più interna (vale a dire ai cosiddetti pianeti terrestri), ma presenti in modo ugualmente intenso in tutto il Sistema Solare non solo nei momenti della sua formazione, ma anche nelle epoche successive.
Scontri inimmaginabili, in grado di intervenire pesantemente non solo sulla morfologia superficiale, ma sulla stessa integrità fisica del bersaglio e sulle sue caratteristiche dinamiche; il modello proposto nel 1989 da W. Benz e A.G.W. Cameron per giustificare la situazione di Urano, ad esempio, ipotizza un impattore con dimensioni paragonabili a quelle della Terra.

Un secondo elemento riconducibile all'azione degli impatti è la strutturazione stessa del nostro pianeta (ma analogo discorso può essere fatto per gli altri pianeti di tipo terrestre), nel quale si è verificata una drastica differenziazione tra gli elementi più pesanti (fondamentalmente ferro e nickel) e quelli meno pesanti (vari composti silicati quali olivina e pirosseni), differenziazione avvenuta in seguito a ripetuti e globali fenomeni di fusione sfociati nella discesa verso il centro del pianeta degli elementi più pesanti, con la conseguente separazione tra nucleo e mantello.
Ma per giungere a ciò è richiesta una spaventosa quantità di energia, che comunque una sorgente di tipo collisionale è certamente in grado di fornire, soprattutto se si considera anche il tasso di impatti che avrebbe caratterizzato le fasi iniziali del Sistema Solare.
Il quadro generalmente accettato per queste fasi iniziali (desunto in gran parte dallo studio della craterizzazione lunare) prevede infatti la presenza di un catastrofico bombardamento che ha coinvolto oggetti con dimensioni anche superiori ai 100 km e la cui intensità è diminuita drasticamente circa 3850 milioni di anni fa.
Una testimonianza concreta della violenza degli impatti negli stadi iniziali della vita del Sistema Solare ci proviene dallo studio delle superfici della Luna e di Mercurio.

Il grafico illustra la velocità di craterizzazione sulla Luna.
I dati si riferiscono al numero di crateri di varie regioni lunari la cui età è nota grazie alle analisi dei campioni rocciosi del nostro satellite.
Si può notare il brusco calo del tasso di produzione dei crateri cui si accennava nel testo.
Le cuspidi indicano che la diminuzione della craterizzazione è avvenuta passando anche attraverso brevi aumenti dell'intensità del bombardamento
(tratto da: W.K. Hartmann, Le Scienze n. 105 - maggio 1977)

Osservando le numerose immagini di questi due corpi a nostra disposizione, non può non balzare subito all'occhio l'incredibile somiglianza delle due superfici, ambedue caratterizzate dalla presenza di una fitta craterizzazione, che va dalle piccole strutture ai grandi bacini di impatto.
Ambedue i corpi costituiscono la conferma di un intenso bombardamento che, perlomeno, ha caratterizzato tutta la zona interna del Sistema Solare e che si è protratto nel tempo non a ritmo costante ma con una graduale diminuzione sia delle dimensioni dei corpi impattanti che del numero stesso degli impatti (questi dati si possono desumere dall'osservazione delle dimensioni e della sovrapposizione dei vari crateri).

Ma una situazione ben più violenta ci viene suggerita allorché spingiamo la nostra analisi un po' più in profondità, prendendo in considerazione i valori delle densità di Mercurio e del nostro satellite.
Se consideriamo le densità dei pianeti a pressione zero, cioè ipotizzando per essi una struttura sferica senza gli effetti della compressione, il valore risultante della densità di Mercurio (5.3 g/cm3) è superiore a quello di tutti gli altri pianeti di tipo terrestre e questo ci porta a ipotizzare una struttura formata da un nucleo ferroso avvolto da una sottile crosta composta prevalentemente da silicati.
Mercurio, dunque, così simile alla Luna in superficie (anche come composizione chimica), avrebbe un nucleo interno uguale a quello della Terra, verosimilmente proveniente, come è avvenuto per il nostro pianeta, dal meccanismo della differenziazione nucleo-mantello.
La domanda cruciale, a questo punto, è la seguente: è sufficiente invocare la maggiore temperatura causata dall'estrema vicinanza del Sole per spiegare la carenza di sostanze più leggere (ipotesi dell'evaporazione del mantello) oppure è necessario ricorrere ad un processo meccanico di asportazione dei materiali (ipotesi della rimozione collisionale)?
Ambedue le ipotesi possono reggere, ma, alla luce di quanto stiamo dicendo riguardo ai primi stadi di formazione del Sistema Solare caratterizzati da planetesimali in moto caotico destinati ad essere l'uno per l'altro o proiettile o bersaglio, l'ipotesi di un gigantesco urto che ha privato Mercurio del suo mantello di silicati appare certamente molto plausibile. Tale impatto, da collocare nei primi momenti del periodo di intenso bombardamento, potrebbe inoltre rendere ragione dell'inclinazione dell'orbita rispetto all'eclittica (7 gradi), maggiore di quella di tutti gli altri pianeti (escluso Plutone, alla cui particolarità abbiamo già fatto un accenno).
Le correnti simulazioni per il fenomeno ipotizzano un proiettile dotato di massa di circa un quinto di quella del pianeta ed una velocità di impatto di 20 km/sec.

Mercurio - Bacino Caloris.
Sono visibili nella parte sinistra dell'immagine gli anelli concentrici di questo immenso bacino di impatto (cratere multiring).
Il diametro della struttura,  ricavato valutando l'anello più elevato, è di 1.340 km; se però si considera  l'anello più esterno  il valore del diametro (pur nella incertezza delle misurazioni dovuta alla sua discontinuità) raggiunge i 3.700 km.

Se il problema per Mercurio era trovare una spiegazione alla sua elevata densità, per la Luna siamo di fronte ad una situazione opposta. Dal momento che la sua densità (valore medio 3.34 g/cm3) è molto prossima a quella del mantello terrestre, è sempre stato considerato logico ipotizzare per il nostro satellite una composizione di silicati e, necessariamente, la mancanza di quel nucleo pesante che può essere considerato una caratteristica saliente dei corpi planetari posti in questa zona del Sistema Solare. Una svolta fondamentale si è avuta allorché, grazie alla possibilità di esaminare direttamente le rocce lunari riportate a Terra dalle missioni Americane e Sovietiche, si è scoperto che la composizione chimica del mantello terrestre era molto diversa da quella delle rocce lunari, che risultano completamente prive di acqua e notevolmente arricchite di elementi refrattari.
Svanita in tal modo la possibilità di ipotizzare per il mantello terrestre e quello lunare una medesima origine, si doveva abbandonare anche la teoria che proponeva per il nostro satellite una formazione coeva alla Terra, come pianeta doppio. Poiché altre ipotesi (quale ad esempio la cattura da un'orbita indipendente o quella della fissione causata dalla rapida rotazione terrestre) dovevano essere abbandonate per difficoltà dinamiche, era necessario trovare altri modelli che fossero in grado di risolvere sia il problema dell'elevato contenuto di momento angolare del sistema Terra-Luna, per altro noto da molto tempo, sia il problema chimico della strana composizione del nostro satellite.
Prende così corpo l'ipotesi di un catastrofico impatto della Terra con un planetesimale (i modelli propongono per il proiettile dimensioni dell'ordine di quelle di Marte), impatto che sicuramente potrebbe rendere ragione del momento angolare del sistema Terra-Luna, non giustificabile ricorrendo solamente a casuali impatti di minori dimensioni. Ma potrebbe anche spiegare le differenziazioni chimiche se, partendo dal presupposto che il corpo destinato a colpire la Terra fosse già differenziato in nucleo e mantello, si ipotizza che, in seguito all'urto, il suo nucleo avrebbe contribuito ad incrementare quello terrestre, mentre il mantello, inizialmente disperso in un disco, si sarebbe successivamente riaggregato per originare la Luna.
L'accrezione e la solidificazione della crosta lunare verrebbero collocate 4440 milioni di anni fa, epoca nella quale iniziò, con una durata di circa 500 milioni di anni, il periodo di intenso bombardamento responsabile della creazione di quegli smisurati bacini d'impatto, in seguito colmati da colate basaltiche, che attualmente costituiscono i Mari lunari.
Si può avere un'idea dei giganteschi impatti che hanno caratterizzato il nostro satellite osservando la figura (adattata da: Wilhelms D.E., USGS Prof. Paper 1348, 1987): in essa vengono schematizzate la posizione e le dimensioni approssimative dei maggiori bacini d'impatto identificabili sulla faccia visibile della Luna (si notino le gigantesche dimensioni dell'Oceanus Procellarum, con diametro apparente di 3200 km).
Bisogna precisare che, mentre per alcune delle strutture indicate nello schema l'origine impattiva è generalmente accettata, per altre vi sono ancora alcune incertezze, che, comunque, non scalfiscono assolutamente l'impressionante immagine di bersaglio cosmico che il nostro satellite ci offre.
Nel grafico sono stati inoltre inseriti anche alcuni crateri di riferimento.

Legenda:
1.Procellarum
2. Imbrium
3. Serenitatis
4. Tranquillitatis
5. Nectaris
6. Fecunditatis
7. Nubium
8. Humorum
9. Grimaldi
10. Orientale
11. Mutus - Vlacq
12. Polo Sud - Aitken
13. Australe
14. Crisium
15. Marginis
16. Smythii
A. Aristarchus
B. Archimedes
C. Copernicus
D. Tycho

Ma nel Sistema Solare non ci sono solamente la Luna e Mercurio…
Proseguiamo perciò il nostro cammino alla ricerca di testimonianze relative alla presenza e al ruolo degli impatti, e lo facciamo cominciando dai pianeti a noi più vicini.

Venere, per molti aspetti considerato il pianeta gemello della Terra, ha nella densa atmosfera la sua caratteristica saliente, caratteristica che ha sempre costituito una barriera insuperabile per poter effettuare una anche minima analisi superficiale. L'ostacolo è stato rimosso ricorrendo alle osservazioni radar, effettuate sia dai radiotelescopi terrestri (soprattutto Arecibo in occasione delle congiunzioni Terra-Venere verificatesi negli anni 1975 e 1977) sia dagli strumenti collocati sulle sonde (ricordiamo per tutte le sovietiche Venera 15 e 16 lanciate nel giugno 1983); il merito della dettagliata conoscenza attuale della morfologia superficiale del pianeta, però, è da attribuire principalmente alla sonda Magellan (lanciata il 4 maggio 1989) che, a partire dal 1990, ha fornito una mappa topografica dettagliata di oltre il 98% della superficie, con risoluzione di 120 m nella zona equatoriale e 250 m ai poli.
E da tale mappa risulta evidente che anche sulla superficie di Venere è possibile riconoscere i tipici crateri da impatto, con diametri compresi tra 3 e 280 km ed una distribuzione abbastanza uniforme sull'intera superficie del pianeta. E' stato inoltre possibile identificare bacini d'impatto di enormi proporzioni, quale ad esempio una struttura circolare (di coordinate 35° Sud e 135° Est) di ben 1800 km di diametro. Le strutture individuate non sembrano mostrare, in oltre il 60% dei casi, effetti di modificazione imputabili a processi geologici o climatici ed in questo frangente Venere si discosta molto da quanto avviene sulla Terra, sulla quale il meccanismo di cancellazione delle strutture superficiali è decisamente più attivo.
Il fatto che non siano stati individuati crateri inferiori a 3 km è da imputare alla potente azione di filtro giocata dalla densa atmosfera venusiana, in grado di distruggere i meteoroidi al di sotto di una certa dimensione oppure di frenarne la caduta al punto da non produrre cratere al momento dell'impatto con la superficie. In ogni caso si dovrebbe manifestare al suolo l'azione dell'onda d'urto trasmessa dal meteoroide all'atmosfera e tale potrebbe essere il meccanismo che ha originato alcune particolari strutture superficiali.
Utilizzando il conteggio dei crateri quale strumento di datazione superficiale, si può ipotizzare per l'attuale superficie di Venere una età di 500 milioni di anni e questo implica che si sia verificato un catastrofico episodio di ringiovanimento associabile, probabilmente, ad una intensa attività di tipo vulcanico che ha riversato sulla superficie del pianeta uno strato di lava ed ha in tal modo cancellato ogni traccia di precedenti impatti.
La testimonianza maggiore in merito al ruolo che gli impatti hanno giocato per Venere è, però, il già accennato moto di rotazione retrogrado del pianeta, unico in tutto il Sistema (eccettuando l'altro caso particolare costituito da Urano), riconducibile ad un gigantesco urto avvenuto nei momenti iniziali della sua formazione, allorché le dimensioni dei planetesimali che entravano in collisione erano decisamente superiori agli impattori delle epoche successive, quando le orbite si erano ormai stabilizzate e le zone più "a rischio" si erano quasi completamente svuotate.

Marte presenta una strana conformazione superficiale, accomunando due emisferi (separati da un cerchio massimo inclinato di circa 35° rispetto all'equatore) con caratteristiche completamente differenti, uno (quello meridionale) ricco di crateri, canali e profonde depressioni la cui morfologia può richiamare gli altipiani lunari e l'altro (quello settentrionale) caratterizzato da pochi crateri e dalla presenza di numerose strutture vulcaniche estinte.
L'analisi delle strutture d'impatto ci permette alcune considerazioni sulla composizione del suolo marziano suggerendo l'abbondante presenza di acqua sotto forma di permafrost: gli ejecta dei crateri d'impatto, infatti, mostrano un contorno lobato (e non a raggiera come gli ejecta dei crateri lunari) interpretabile come un avanzare di fango, formatosi dallo scioglimento del terreno ghiacciato ad opera del calore generato dall'impatto e successivamente congelato dopo aver ricoperto la zona circostante.

Cratere da impatto sulla superficie di Marte: si può notare il caratteristico contorno lobato degli ejecta, indice della presenza di acqua.

Molto dibattuto è il problema dell'acqua sulla superficie di Marte, la cui presenza in epoche passate è testimoniata in modo ineccepibile da molteplici strutture per le quali è ormai fuori discussione l'origine da fenomeni di natura erosiva. Una possibile risposta al problema dell'origine di queste grandi quantità di acqua è suggerita da Christopher F. Chyba ricorrendo all'intenso bombardamento ad opera di comete ed asteroidi carbonacei nell'epoca iniziale della formazione del Sistema Solare, un processo in grado di apportare sulla superficie del pianeta rosso uno strato uniformemente distribuito di 10-100 metri d'acqua: ancora una volta, dunque, viene chiamato in causa il meccanismo degli impatti.

Ormai siamo entrati nel cosiddetto Sistema Solare esterno, ed anche qui le testimonianze in merito al ruolo giocato dagli impatti proprio non mancano…
La Fascia degli Asteroidi è stata da sempre considerata, nell'immaginario collettivo, il luogo più indicato per il verificarsi di collisioni. Si è sempre raffigurato tale zona, infatti, come fittamente popolata di corpi in moto caotico e dunque destinati, inevitabilmente, a cozzare l'un contro l'altro. Ed in effetti l'idea delle famiglie dinamiche di Hirayama si colloca alla perfezione in questo quadro, mostrando come tali urti possano talvolta essere così violenti da distruggere completamente i corpi in essi coinvolti. In forza di queste considerazioni, l'iconografia tradizionale degli asteroidi li rappresentava come corpi irregolari, la cui morfologia superficiale non doveva essere molto dissimile da quella rivelata dalle immagini dei due satelliti di Marte Phobos e Deimos.
E proprio tale morfologia è stata puntualmente rivelata allorché la sonda Galileo ha trasmesso a Terra le immagini di Gaspra e Ida e, successivamente, la NEAR quelle di Mathilde e di Eros: anche su questi frammenti cosmici facevano mostra di sé i segni lasciati dagli impatti, testimonianze silenziose di un passato veramente… movimentato.
Non solo crateri più o meno fitti e di svariate misure, ma anche vere e proprie voragini, le cui impressionanti dimensioni lasciano talvolta perplessi sul fatto che il corpo non si sia disintegrato: veramente incredibile quella di oltre 20 km presente su Mathilde, un asteroide che ha un diametro di 52 km!!!.

Mathilde
si può vedere in primo piano il cratere di 20 km di diametro al quale si è accennato poco sopra.
L'immagine è stata ripresa dalla sonda NEAR.

Certo non possiamo aspettarci che i giganti gassosi (Giove e Saturno) possano offrirci una superficie cosparsa di crateri come quella dei pianeti terrestri, anche perché la "superficie" di questi corpi costituiti soprattutto da gas è molto lontana dall'immagine tradizionalmente associata a questo termine... In occasione dell'impatto con la cometa Shoemaker-Levy 9 (luglio 1994) si sono potuti notare gli impressionanti ed evidentissimi segni lasciati dai frammenti sulla superficie di Giove, ma si è potuto notare anche che nel volgere di un anno le tracce erano notevolmente diminuite in intensità, chiara indicazione della potente azione dell'atmosfera gioviana, in grado di disperdere rapidamente le polveri ed i gas originatisi nell'impatto e rimasti in sospensione.

Le macchie nere dell'immagine a sinistra sono  le cicatrici lasciate su Giove dagli impatti della cometa Shoemaker-Levy 9.

Se Giove è avaro di informazioni circa il ruolo giocato dagli impatti, non si può dire analoga cosa dei suoi satelliti.
La superficie di Ganimede racconta, pur nella notevole diversificazione che la caratterizza, un passato di violenti impatti, e la diversità nella distribuzione dei crateri può ragionevolmente essere interpretata come una conseguenza delle differenti età dei terreni. Se interpretiamo le caratteristiche strutture superficiali come una traccia di intensa e travagliata attività geologica, dobbiamo anche ipotizzare che tale attività abbia inevitabilmente nascosto gli impatti più antichi e questo potrebbe spiegare la presenza solo di strutture relativamente piccole e l'assenza dei giganteschi bacini d'impatto rilevabili altrove. Questo, comunque, non impedisce anche a Ganimede di fare sfoggio di una struttura di 550 km (il bacino Gilgamesh).
Callisto è per dimensioni uguale a Mercurio e, proprio come Mercurio, presenta una superficie con una fitta craterizzazione, con la presenza di larghi bacini d'impatto (i due maggiori sono Valhalla con diametro di 4000 km e Asgard di oltre 1600 km), segnale che, a differenza di quanto è avvenuto per Ganimede, la sua superficie non è stata ringiovanita e rimodellata dalla attività geologica.

Superficie di Ganimede
La struttura raffigurata è una catena di crateri riconducibile ad un corpo disintegratosi in frammenti prima di colpire la superficie, proprio come è accaduto alla Shoemaker-Levy 9.

Possiamo aspettarci poco dall'analisi della superficie di Io in merito all'evidenza ed al ruolo giocato dagli impatti: l'intenso riscaldamento interno indotto dall'azione di marea generata dalla vicinanza di Giove ha nei fenomeni vulcanici il suo tipico e naturale epilogo e questo processo influenza pesantemente la morfologia superficie del satellite. La superficie di Io, infatti, è ricoperta da una coltre composta dal materiale eruttato continuamente dai vulcani e si calcola che, al tasso di produzione attuale, nel corso di un milione di anni tale materiale possa raggiungere il ragguardevole spessore di 10 metri.
Anche da Europa ci provengono scarse informazioni sul tasso di impatti che ha caratterizzato il sistema satellitare di Giove, ma per ben altri motivi. La superficie del secondo satellite galileiano, come d'altra parte è logico aspettarsi in questa zona così lontana dal Sole, è completamente ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio e pertanto, in caso di impatto, non sussistono le premesse ambientali perché una struttura craterica si possa conservare per lunghi periodi. L'analisi delle immagini inviate dalle sonde (soprattutto quelle scattate dalla Galileo nel corso del flyby effettuato il 6 novembre 1997) ci permette comunque di rilevare, sparsi tra le caratteristiche striature della superficie di Europa, numerosi crateri piccoli e grandi: si può senza difficoltà identificare l'evidente struttura a raggiera di Pwyll (un cratere recente con diametro di 26 km) e, con altrettanta facilità si può notare, in una immagine del 4 aprile 1997, una struttura craterica multi ring di 140 km di diametro.

Una situazione tormentata imputabile per alcuni aspetti al meccanismo degli impatti ci viene offerta anche dal sistema di Saturno. Tralasciamo il discorso relativo agli anelli (tra l'altro non più esclusiva caratteristica di questo pianeta, dopo le scoperte di analoghe strutture per Giove, Urano e Nettuno) la cui formazione può essere spiegata non solo ricorrendo ad un impatto in grado di sbriciolare un satellite, ma anche chiamando in causa le intense forze mareali del pianeta o meccanismi accretivi partendo da un disco originario intorno al pianeta.
L'esempio che intendo evidenziare è offerto dal satellite Mimas, un oggetto di circa 390 km di diametro, sulla cui superficie spicca il gigantesco cratere Herschel. Le dimensioni di questa struttura (ben 130 km di diametro) ci inducono a ritenere che l'impatto che l'ha generato sia stato ad un passo dal causare danni strutturali ben più disastrosi, e la stessa inclinazione orbitale di Mimas (circa 1,5°) non è escluso che si possa ragionevolmente attribuire proprio a tale evento.

Mimas ed il gigantesco cratere Herschel.

Mimas, analogamente a Rhea e Giapeto, mostra inoltre una saturazione di piccoli crateri ed una carenza di quelli maggiori di 30 km, indizio che l'epoca della sua formazione è recente, collocabile cioè in un periodo in cui gli impattori erano ormai diventati più piccoli e quelli di maggiori dimensioni costituivano solamente dei casi isolati. Ne consegue che si può ipotizzare per tali satelliti un meccanismo di creazione-distruzione che si può essere attivato più volte nel corso della loro storia.

Per quanto riguarda Urano si è già accennato in precedenza al suo asse di rotazione praticamente adagiato sull'orbita, indicazione chiara che si sono verificati violenti episodi collisionali che hanno profondamente influenzato la sua formazione. Le indicazioni provenienti dal suo sistema satellitare non ci consentono di trarre molte conclusioni, anche perché le superfici dei satelliti mostrano talvolta morfologie quasi opposte. Mentre Ariel e Titania, infatti, con le loro superfici abbastanza giovani rivelano di essere stati dei corpi geologicamente attivi e Umbriel, che richiama molto la morfologia di Callisto, esibisce una superficie praticamente immutata dal termine del periodo di intenso bombardamento iniziale, Miranda mostra sia terreni molto antichi e fitti di crateri sia terreni che risultano molto più recenti, forse i più giovani tra quelli riscontrabili nel sistema satellitare di Urano. Quest'ultimo satellite, inoltre, mostra una inclinazione orbitale di oltre 4 gradi, evidente indizio di un passato piuttosto burrascoso. E perché dunque non collegare ad un unico evento impattivo sia questa anomala inclinazione dell'orbita, maggiore di quella degli altri satelliti di Urano, sia il ringiovanimento di una parte della superficie, meccanismo molto efficiente nel caso di superfici costituite quasi esclusivamente da ghiacci come sono quelle dei corpi collocati in questi angoli remoti del Sistema Solare?

E siamo giunti al secondo gigante di ghiaccio, Nettuno. Anche in questo caso le indicazioni dirette per un approfondimento del tema degli impatti sono piuttosto scarse; le immagini più recenti del pianeta (inviate dal Voyager 2 nell'agosto 1989) mostrano una enigmatica superficie verde-azzurro con evidenti segni di complessi moti atmosferici, ma nulla ci è dato di conoscere della superficie sottostante.
Certamente più utili per i nostri fini le immagini relative alla superficie di Tritone, che mostrano la presenza sia di complesse strutture di difficile interpretazione sia quella più familiare dei bacini di impatto, quasi cancellati dal materiale effusivo che ha colmato la cavità iniziale (proprio in tale fenomeno e nella sua collocazione in un'epoca recente si potrebbe ricercare la spiegazione dell'assenza di altri crateri).
Ma Tritone, indirettamente, ci può dare una indicazione molto più importante.
Il sistema satellitare di Nettuno (troppo anomalo per essere quello originario) ha da sempre spronato i planetologi ad identificare le cause della sua stranezza, ma non sempre le teorie proposte erano in grado di rispondere a tutti gli interrogativi. L'idea attualmente accettata è quella proposta da P. Farinella e collaboratori nel 1980, che identifica nella cattura di Tritone lo sconvolgimento del primitivo sistema satellitare di Nettuno. Con tale ipotesi si può spiegare non solo il moto retrogrado del satellite, ma anche l'esistenza delle complesse strutture superficiali attribuibili alle forti sollecitazioni gravitazionali che ne avrebbero riscaldato l'interno.
Dopo la scoperta degli oggetti trans-nettuniani si è fatta strada l'idea che Tritone e molti altri corpi celesti (Plutone con il suo satellite Caronte, il satellite di Saturno Phoebe, Chirone ed il gruppo dei Centauri) appartengano proprio a questa tipologia di oggetti e dunque provengano dalla cosiddetta Fascia di Kuiper-Edgeworth.
Mentre Tritone è stato direttamente catturato da Nettuno e altri oggetti sono stati bloccati in un'orbita stabile (Plutone, ad esempio, e un gran numero di Kuiper Belt Objects sono in risonanza orbitale con Nettuno), appare molto ragionevole l'ipotesi che altri "Tritoni" possano essere entrati nella zona planetaria del Sistema Solare, terminando bruscamente la loro lunga corsa sulla superficie di un pianeta con evidenti drammatiche conseguenze (basti pensare che Tritone ha un diametro di 2705 km…).
Questa "ragionevole ipotesi", inoltre, renderebbe possibile il verificarsi di impatti di dimensioni gigantesche anche in epoche successive al bombardamento iniziale che ha caratterizzato l'evoluzione del Sistema ed al quale, fino ad ora, abbiamo fatto riferimento quale periodo contrassegnato dagli impatti più energetici.

Siamo così giunti al termine di questo rapido viaggio tra i corpi del Sistema Solare alla ricerca di testimonianze sul ruolo degli impatti. Ritengo che molti degli argomenti presentati meriterebbero una trattazione ben più approfondita dei miei sommari e scarni "appunti di viaggio", ma devo rinunciare a farlo perché questo mi porterebbe troppo lontano dalle finalità che mi sono prefissato.
Resta solo il tempo di trarre qualche conclusione; dal quadro proposto emergono infatti alcune idee che ritengo di poter così sintetizzare:

1. Il fenomeno degli impatti ha interessato e interessa tutti i corpi del Sistema Solare.
I flussi di craterizzazione mostrano situazioni non sempre omogenee tra le varie zone del Sistema, tuttavia  il loro studio, che ha nel conteggio dei crateri il dato principale, costituisce un ottimo criterio per valutare le epoche di formazione delle varie superfici.
Anche se, chiaramente, è molto arduo (e talvolta impossibile) riuscire a correlare, sulla base solamente di questi dati, le fasi geologiche dei vari corpi (sarebbe infatti necessario disporre della datazione isotopica dei materiali), emerge ugualmente, quale dato generale, il passaggio da una situazione di intensa craterizzazione iniziale ad una fase meno violenta.

2. Gli episodi impattivi non hanno avuto solamente uno sbocco nella modificazione della morfologia superficiale di tutti i corpi, ma hanno contribuito anche a cambiare la stessa strutturazione interna (differenziazione nucleo/mantello) in quelli sufficientemente grandi.

3. Talvolta i fenomeni di impatto hanno comportato pesanti modificazioni di carattere dinamico, testimoniate dalla peculiarità di alcune orbite.

4. Per i pianeti di tipo terrestre bisogna sottolineare il ruolo degli impatti nel meccanismo di rimozione/creazione delle atmosfere planetarie.
Le atmosfere attualmente presenti non possono certamente essere quelle originarie, dato che la formazione dei pianeti interni si colloca quando ormai il vento stellare aveva abbondantemente svuotato di gas il Sistema ancora in formazione.
Siamo ancora lontani, però, dal poter affermare se le nuove atmosfere siano un fenomeno diretto della volatilizzazione degli elementi componenti la superficie planetaria innescata dal calore riconducibile agli impatti e/o ad altri fenomeni di tipo endogeno oppure vi sia stato un apporto diretto di tali elementi proprio da parte dei proiettili cosmici.

5. Un altro elemento fondamentale da inglobare in ogni discorso sugli impatti riguarda la presenza attuale di acqua sul nostro pianeta e nel passato del pianeta Marte, come dimostra in modo eloquente la sua morfologia superficiale.
Dal momento che questa acqua quasi certamente non potrebbe provenire dai planetesimali che si stavano aggregando (la temperatura in questa zona del Sistema Solare era troppo elevata), si deve ricercarne l'origine in una sorgente esterna.

6. Certamente non trascurabile, infine, seppure in una visione antropica dei fenomeni che stiamo considerando, è il ruolo giocato dagli impatti nel "preparare il terreno" alla comparsa dell'uomo, intervenendo in modo attivo nelle fasi evolutive della biosfera terrestre, e faccio esplicito riferimento alle grandi estinzioni periodiche, che hanno nell'evento K/T, nella scomparsa dei grandi dinosauri e nell'ascesa dei mammiferi l'esempio più conosciuto.
Per tali eventi, ormai, comincia ad essere accettata - superando le perplessità degli anni '80 - la presenza di una componente esterna che, sovrapponendosi alle dinamiche evolutive fisiologiche delle specie, ha talvolta imposto drammatici e repentini cambiamenti.

L'immagine proposta, dunque, è quella di un Sistema Solare in cui il meccanismo degli impatti è stato molto più di un semplice effetto secondario imputabile al grande affollamento di oggetti collocati in orbite che si incrociavano pericolosamente.
L'idea che mi sono sforzato di mettere in evidenza, spero con sufficiente apporto di prove, è che il meccanismo degli impatti è stato ed è tuttora un fondamentale processo evolutivo, non solo come momento distruttivo, ma anche come indispensabile e basilare elemento costruttivo nella edificazione e nella strutturazione definitiva (o quasi…) di tutti i corpi del Sistema Solare.
Come anche il lettore più distratto avrà certamente notato, non ho parlato delle strutture da impatto individuabili sulla superficie della nostra Terra (solo un fugace accenno iniziale al Meteor Crater e, al termine, all'evento K/T): è perciò doveroso da parte mia - e prima che mi venga chiesto - motivare la mia scelta.
Al di là di una motivazione scherzosa che potrei addurre (appellandomi alla necessità di non superare il limite di sopportazione del lettore…), sono convinto che l'argomento del ruolo degli impatti con la Terra necessiti di una trattazione a se stante, non solamente perché la Terra è il nostro Pianeta, ma soprattutto per le inevitabili problematiche correlate (l'analisi del complesso fenomeno meteoritico, la situazione attuale e le prospettive future della ricerca dei NEO, i criteri di l'individuazione delle strutture terrestri da impatto e le difficoltà presenti in tale ricerca, le reali difese contro possibili impatti futuri, la valutazione di oscuri eventi del passato che potrebbero aver influenzato le stesse vicende storiche, ecc…): problematiche la cui analisi richiederebbe molte e molte altre pagine (alcune delle quali sto gradualmente aggiungendo al mio sito web…), e voci certamente più autorevoli della mia (e anche per queste... mi sto organizzando).

 

 

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